Judy Blue Eyes: Il fiore selvaggio della musica Folk

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    Delineare con esattezza, perizia e accuratezza teorica un quadro generale della musica folk, sviluppatasi prevalentemente negli Stati Uniti attorno agli anni Sessanta del Novecento, appare quantomeno arduo, considerando la mole di artisti e le influenze presenti, provenienti ciascuna da personalità carismatiche appartenenti al contesto della musica leggera. Se si pensa, inoltre, a come le radici di tale genere risiedano nel Folk tradizionale, diffusosi negli anni Venti, allora l'impresa si complica notevolmente, lasciando spazio ad un mero excursus ove si tenta di tracciare, alla maniera dei pittori impressionisti, storie indistinte, a metà tra il voluto incompleto e l'impossibilità di carpire con correttezza ciascuna sfumatura cromatica del genere musicale in questione. E' definito "Folk" ciò che è del popolo, che ad esso appartiene e vi è indissolubilmente legato, senza il quale probabilmente non avrebbe neppure una raison d'être; giacchè se la musica inizia ad evolversi, in ambito classico, nel contesto cortese, è nella diffusione popolare che trova la sua dimensione evolutiva più ferrea, il cardine che ruota l'intera struttura e scandisce lo spaziare tra generi differenti, ciascuno legato ad una sfera emotiva fatta di sentimenti, ricordi e passioni. Così vengono alla luce il Rock n'Roll, il Punk, il Jazz e tutti gli altri stili, generi, musicali che, propri di subculture differenti l'una dall'altra, diventano quasi identificatori di status presso l'audience.
    Tra le diverse esigenze, sorte nel tempo a partire da coloro che, ancora legati all'ambito della musica classica, prediligevano ritmiche schematizzate e poco inclini allo sfrenato e rivoluzionario Rock di Chuck Berry, Elvis Presley o del meno noto Bo Diddley, ne emerse preponderante quella di dare una voce al popolo, a quello vero, lontano dal caos metropolitano delle nuovissime città à la New York City. La musica folk ha origine nelle fattorie, nei campi da coltivare, nelle sconfinate campagne dell'america selvaggia. E' fallace, il più delle volte, l'identificazione di tale movimento con quello Country che, seppur molto simile, si differenzia notevolmente sotto l'aspetto delle liriche e dello stile musicale adottato; la folk music non è altro che il racconto, spesso crepuscolare, di storie di vita vissuta. Siano esse appartenute a individui falliti, a reietti o a ricchi proprietari terrieri del Kentucky, ciascun ritratto in tal genere è arricchito da una potenza melodica sottile, che tende a delineare con precisione i tratti salienti delle storie, tralasciando dettagli più o meno importanti, o piuttosto esaltandoli a scapito del contorno, originariamente più rilevante. Non v'è spazio per sperimentazioni o lampi di genio, più propri di coloro che, imprigionati in realtà cittadine cupe e aride, patinate dalle fittizie luci di Times Square, negli stessi anni inventano generi e consegnano alla storia alcuni degli album più importanti della musica. Non v'è spazio neppure per chi, in preda ad incubi lisergici, descrive una società di mostri pronta a giudicare e a mettere alla gogna i sognatori sulla costa del Pacifico.
    Vi è, però, posto per penne ispiratissime, come nel caso di Dylan, Browne o Cohen; o per strumentisti eccezionali dal calibro di Crosby o Neil Young. Tuttavia, in questo conciso viaggio in musica, è necessario soffermarsi sulle voci angeliche e perfette, totalmente esenti da sbavature di sorta, che nell'ambito della musica Folk sono state tante. Da Joan Baez a Carole King, sino ad arrivare a Joni Mitchell, passando, in una fase prettamente di formazione, ad una giovanissima Grace Slick, che nell'album Volunteers dei Jefferson Airplane esalta le sue origini con il brano The Farm, perla di musica popolare in un pacifista e critico rock classico di fondo. Si arriva così, dunque, alla chanteuse che fu musa di Stephen Stills, il quale nel suo supergruppo Crosby, Stills, Nash la omaggiò con la celeberrima Suite: Judy Blue Eyes, ballata interminabile divisa da molteplici intervalli, ciascuno differente dal precedente, coincidenti in un finale ritmato e orecchiabilissimo.
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    Ebbene, in ambito musicale ognuno sa quanto sia complicato aprire la propria carriera con un capolavoro, un'opera prima la cui valenza appaia destinata ad un albo d'oro della musica, per rimanervi perpetuamente ed essere, così, tramandata ai posteri. E' successo più o meno a tutti gli artisti citati precedentemente, in maniera esplicita o implicita, ma si pensi anche ai più moderni Florence + the Machine, o all'ispiratissimo Parachutes dei Coldplay. E' similare il caso di Judy Collins, nata a Seattle il primo Maggio di settantasei anni or sono, che con A Maid of constant sorrow si assicura una poltrona d'onore tra le fila dei maggiori esponenti della musica folk; sebbene il suo reale successo derivi dalla cover della celebre Both Sides, Now della cara amica Joni Mitchell. Una gavetta, la sua, fatta di club newyorkesi del Greenwich Village, microcosmo di Manhattan racchiuso tra due titani: Central Park a Nord ed il World Trade Center a Sud, visibile in tutto il suo sfarzo di grattacieli dalle basse e caratteristiche abitazioni del sobborgo. Al suo centro spicca rigoglioso il Washington Square Park, al tempo ritrovo di molti artisti che, data l'assenza di sufficienti club a tema prettamente folk, ivi si esibivano gratuitamente la domenica. All'interno dei locali, invece, muoveva i primi passi un giovanissimo Lou Reed, al di fuori, negli actor studios Pacino e molti altri.
    Ispirandosi a Dylan, anch'egli habitué del Village, la Collins annovera nel suo disco d'esordio dodici ballate che, rifacendosi ad avvenimenti storici come avviene, ad esempio, in Tim Evans, esprimono in sottofondo un tema di profonda protesta e non accettazione delle ingiustizie della vita. La soave voce della cantante di Seattle culla l'ascoltatore, toccando note che ai tempi, visti i precedenti, non erano affatto astruse, ma che lasciano ugualmente di stucco per precisione e perizia nell'esecuzione. Si accompagnano poi, ai mai banali testi, degli arrangiamenti molto vicini al country a tratti, mentre altre volte più stanziati in una dimensione quasi medievale, ricordando le future opere dei Dead can Dance. Il tutto è addolcito dallo stile prettamente classico e accademico di Judy Collins, la quale sfoggia impavida le sue doti canore, facendone la chiave dell'effettiva bellezza complessiva.
    Lo studio e la tecnica, intesa come capacità di esprimere le proprie doti nel miglior modo possibile, divengono dunque gli strumenti principali dell'opera intera, che altrimenti risulterebbe un buon novero di testi e liriche poetiche, le quali si limitano a narrare storie di personaggi che da noi possono apparire più o meno distanti.
    Inizia così la brillante carriera di colei che, nell'arco della sua vita, sarà autrice, scrittrice e attrice e che continuerà il suo percorso musicale tra cover, interpretazioni di brani vari, da Cohen al medievale Landini, e collections. Una artista prolifica, dunque, della quale possono citarsi innumerevoli capolavori quali: Wildflowers, Golden Apples of the Sun e Hard Times for Lovers, arrivando sino a Times of our Lives, da molti ritenuti un po' l'inizio di un declino musicale e di una gradualmente sempre più scarsa ispirazione da parte della Collins.
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    Tuttavia, la valenza assunta da tale disco è esplicita nella sua cripticità apparente. Dopo la fase discendente iniziata negli anni Ottanta con Running for My Life la cantante di Seattle decide di dare una svolta alla sua carriera, trattando in maniera quasi fittiziamente autobiografica i tempi della nostra, o molto più probabilmente sua, vita. Un concept che resta sullo sfondo, mai preponderante, che in puro stile folk non pretende di valicare il fine ultimo dell'album stesso: narrare storie. Così inizia un lungo excursus, che parte in senso letterale con Great Expectations, brano ritmato e godibile, all'interno del quale la voce della Collins appare più rinvigorita che mai, pronta a guidarci ancora una volta attraverso il suo, personalissimo, viaggio musicale.
    E' un concetto che esprimerà anche in diverse interviste rilasciate: ciascun disco e ciascun live, diverso da quello precedente, non è altro che un lungo viaggio musicale, il quale ci conduce in luoghi differenti a seconda dei temi e delle storie trattate. Così il pubblico, lasciandosi trasportare, assapora l'esperienza e può rimanerne più o meno deluso, ma avrà comunque aggiunto qualcosa di nuovo al proprio bagaglio di vita. Così, l'album rilasciato nel 1982, ci descrive gli ambienti e i contesti famigliari (Mama Mama, Son Son, Grandaddy), si presta alle ballate degli esordi (Drink a Round to Ireland) e si chiude con la speranza nel futuro, con la spensieratezza tipica di un fanciullo, in un'atmosfera che nel suo più profondo intimo tocca le corde della malinconia. Al termine dell'ascolto, in rigorosa meditazione, non può che restare spazio alla sola emozione, all'osservazione più crepuscolare delle cose, dal fascino della semplicità di un arredamento al ricordo di una precisa situazione.
    I tempi della nostra vita, dunque, riaffiorano alla memoria e ciò prolunga il nostro viaggio, lasciandoci al fine soli nella nostra intimità in profonda riflessione. Il disco, dunque, seppur non spiccando affatto nella realizzazione tecnica degli arrangiamenti, è un progetto furbo: centrando alla perfezione il tema che si prepone di trattare, esso ha la meglio sui sentimenti di ognuno. Contrariamente a quanto potrebbe supporsi leggendo queste brevi righe, Times of our Lives non fu affatto apprezzato ai tempi, anzi decretò un crollo ancor più vertiginoso della Collins nelle classifiche. Probabilmente spesso ciascuno di noi dimentica quanto il messaggio, ma ancor più le sensazioni, siano quanto di più nobile possa essere trasmesso con chiarezza, e in ciò è innegabile che l'artista fosse riuscita in pieno, eppure per concludere al meglio tale viaggio all'interno della sfera musicale di Judy Collins occorre tornare indietro nel tempo, di sette anni per l'esattezza.
    Gli anni Settanta furono un periodo che fornì alla musica alcune delle sue pepite più preziose, ed è proprio in tale epoca che si stanzia l'ultima tappa di questo excursus. Nel 1975 viene rilasciato Judith, un album che, per essere compreso appieno deve essere preso per ciò che realmente è: un diamante dalla forma perfetta, la cui reale forza risiede nel bagliore che emana, nella valenza visiva o per meglio dire, in questo contesto, uditiva. Se con A maid of constant sorrow e Times of our lives erano stati tracciati i connotati rispettivamente più acerbi e di seguito più maturi della cantante, è con la fase di mezzo, rappresentata appunto dal disco in questione, che si coglie la reale dimensione dell'artista. In medio stat virtus ricorda una celebre citazione latina, che si addice maggiormente a contesti ben differenti inerenti la morale, i costumi e gli atteggiamenti. Eppure è opportuno che tale sententia sia riportata alla memoria, affinchè la preponderanza già propria di Judith assuma sembianze ancor più auliche.
    L'opera, che della Collins fu completa delizia e fortuna, apre le danze con la ballata The Moon Is a Harsh Mistress, che ci trasporta immediatamente nel passato, all'ode alla Luna in A maid of constant sorrow. Continua il suo incedere con nuove ballate, più lente, altre più ritmate, che poco si discostano dai canoni tipici della musica folk del tempo, o di un Blue di Joni Mitchell, capolavoro al quale non è un'eresia avvicinare tale album. Il tutto è contornato da arrangiamenti precisi, perfetti, che lasciano ampio spazio alla voce ancora giovane della bella Judy dagli occhi blu, che mai si permette di sgarrare. Nel complesso, dunque, Judith è un disco che non si caratterizza per la trasmissione emotiva, quanto per l'esposizione di una perfezione canora e musicale probabilmente priva di eguali, che avvicina agli angeli la carismatica figura di Judy Collins, maestra di musica e di canto, soprano dalla tecnica minuziosa, sicura di sè per ragioni ben più che ovvie.
    Un personaggio tormentato, che al dolore per la perdita di un figlio suicida affianca l'umorismo sagace espresso come attrice nella pellicola Junior, la spensieratezza nel canto, che si fonde al rigore espresso nella sopraffina Amazing Grace cantata nei giardini del Campidoglio come ode ai caduti in guerra; sino ad arrivare alla sfera più intima espressa con la letteratura. Poliedricità e tecnica, armonia e perfezione, la perfetta fusione per identificare un ultimo baluardo di quegli anni Sessanta che, probabilmente, non avranno mai un degno revival tecnico.

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    A cura di: Altair~ / Tannhauser! per il sito Naruto Addestramento Ninja
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